La crisi della Chiesa tardomedioevale

Esilio avignonese e scisma d'Occidente

Pubblicato su Tempi, marzo 1998, col titolo “La crisi della Chiesa nel tardo Medioevo: esilio avignonese e scisma d'Occidente”

Il Trecento fu un secolo particolarmente, stranamente infausto. Lo notava già Maritain, che interpretava questo fenomeno in un senso simbolico, quale annuncio, fosco e minaccioso, della fine di un'epoca segnata dalla fede e dell'inizio di un'altra epoca, che avrebbe sempre più emarginato la fede per affermare la centralità dell'uomo, di un uomo contrapposto a Dio. Si è già detto, da queste pagine, della grave crisi provocata dalla Peste Nera. Il Trecento fu poi un secolo di crisi della cultura (la Scolastica, che nel Duecento aveva raggiunto la massima fioritura, con San Tommaso d'Aquino e San Bonaventura), di crisi sociale (con numerose vicende di rivolte da parte dei lavoratori meno abbienti, dai contadini francesi e inglesi ai "Ciompi", operai fiorentini), e di crisi delle due grandi istituzioni che avevano dominato la scena nel Medioevo, i due poteri cosiddetti universalistici, perché estesi a tutto il mondo cristiano, ossia l'Impero e il Papato. L'impero a dire il vero aveva iniziato a perdere colpi fin dal Duecento, e già con Federico II aveva di fatto ridimensionato la proprie pretese universalistiche; nel Trecento il processo di indebolimento subisce una accelerazione che rende ormai quello imperiale un potere, se non puramente simbolico, ampiamente limitato dal potere della grande feudalità tedesca, che con la Bolla d'Oro (emanata da Carlo IV nel 1356), si vede riconoscere il diritto di eleggere l'imperatore.

L'esilio avignonese

Ma l'aspetto forse più impressionante della crisi del Trecento è quello che tocca il Papato, a cui è riservata una sorte di inusitata (e unica) umiliazione. Già si è visto, due settimane fa, come la nuova realtà degli stati nazionali (la Francia di Filippo il Bello, nella fattispecie) fosse sempre più arrogante e insofferente nei confronti della Chiesa e del Papato. Ma, di lì a non molto, le pretese dello stato francese si sarebbero spinte ben oltre, molto più in là di dove avevano osato spingersi gli imperatori dei secoli precedenti, nei loro pur aspri scontri col Papato: si giunge infatti al trasferimento della sede papale da Roma, la città dove Pietro era stato vescovo ed era morto, ad Avignone, città formalmente di sovranità pontificia, ma circondata dal regno di Francia. Per quasi settant'anni, dal 1309 al 1376, i Papi, sette in tutto, eletti da un collegio di cardinali in cui i francesi avevano la prevalenza, risiedettero ad Avignone. Si è soliti definire quel periodo di storia del Papato come l'esilio o la "cattività" avignonese, istituendo una analogia col periodo che il popolo eletto dovette trascorrere, in condizioni di analoga non-libertà, a Babilonia. In effetti i Papi di Avignone furono, se non prigionieri del Re di Francia, almeno fortemente condizionati dal trovarsi in un territorio di fatto francese.

Uno dei maggiori storici della Chiesa, il Lortz, definisce quel periodo come "un terribile colpo inferto sia alla forza interna, che al prestigio del Papato" (Storia della Chiesa, vol. 1°, p. 577). La massima autorità della Chiesa, in modo incomprensibile alla stragrande maggioranza dei fedeli, sposta la sua sede abituale da quella Roma che era stata il centro della Cristianità, per trasferirsi in una città del Mezzogiorno di Francia, che non aveva niente di significativo per la fede. Ciò facendo i Papi cedono alle pressioni del Re di Francia, e dalla sua volontà, come dicevamo, finiscono per essere condizionati. Mai al punto di mettere in discussione l'ortodossia dogmatica, ma assumendo spesso iniziative concrete che riducevano il loro prestigio e la loro credibilità. La curia papale di Avignone infatti si dedica in modo eccessivo a questioni di carattere fiscale e finanziario, trascurando, specularmente, il compito essenziale di trasmettere, testimoniandola, la fede di Pietro. Tale fiscalismo esoso era funzionale al mantenimento di una vita di corte "sfarzosa" (Lortz, cit., p. 578). Inoltre troppo spesso il Papa ricorreva all'interdetto e alla scomunica, per motivazioni non proporzionate a tali, eccezionali, misure punitive. Un tale abuso finì col rendere quelle misure inefficaci, il che del resto era spesso un bene, in quanto l'arma dell'interdetto, ove applicata fedelmente, comportava l'isolamento dalla vita sacramentale, anche per la durata di anni, per un elevato numero di fedeli.

Non a caso è in quel contesto che fioriscono discussioni sulla possibilità che un Papa sia eretico. Di fatto le accuse in tal senso contro Bonifacio VIII erano state evidentemente strumentali, e nessun Pontefice venne davvero sospettato di eresia, ma è un sintomo inquietante che l'ipotesi della possibilità di principio di un tale evento prendesse corpo presso un numero non esiguo di canonisti. Nel Papa in effetti si vede sempre più un sovrano politico accanto ad altri. È però giusto ricordare come non solo nessun Papa, nemmeno nel periodo avignonese, sia mai incorso in alcun errore dottrinale, ma come, in tale periodo stesso, la maggiore responsabilità diretta della mondanizzazione della Chiesa va attribuita piuttosto alla curia pontificia, divenuta un pesante e potente apparato, che ai singoli Papi i quali in realtà cercarono di porre un freno agli abusi curiali. Papi come Benedetto XII, Innocenzo VI, Urbano V, Gregorio XI furono animati da una sincera fede personale e da volontà di riforma della Chiesa.

lo scisma d'Occidente

L'esilio avignonese si conclude nel 1376: com'è noto, anche in seguito agli interventi accorati di Santa Caterina da Siena, papa Gregorio XI torna a stabilirsi a Roma, in una Roma peraltro politicamente turbolenta e ben poco entusiasta del codazzo di mercenari bretoni, che avevano accompagnato il Papa, facendola da padroni. Il suo successore, Urbano VI, italiano, fu una personalità integerrima, ma rigido e legato all'idea di un potere teocratico, che già con Bonifacio VIII si era rivelata anacronistica e controproducente. Il suo comportamento irruente e per nulla diplomatico preoccupò quel "partito avignonese", che contava molti esponenti tra i cardinali (i 2/3 dei quali era francese), e si vedeva tagliare l'erba sotto i piedi dai propositi riformatori del nuovo papa. Di qui la gravissima decisione di iniziare uno scisma, quello passato alla storia con nome di scisma d'Occidente, uno scisma che aveva come motivazione solo l'egoistica volontà di conservare dei privilegi, ingiustamente consolidati nel periodo avignonese. I cardinali che lo promossero, eleggendo Clemente VII come (anti-)papa si sentivano in effetti più francesi che cattolici, e su di loro cade essenzialmente la responsabilità di aver inferto alla Chiesa, già indebolita dalla cattività avignonese, una ulteriore umiliazione: la Cristianità occidentale si ritrovò divisa in due, a seconda della obbedienza al Papa ("di Roma") o all'Antipapa (che si stabilì ad Avignone).

conclusione

Una vicenda dunque triste nella storia della Chiesa, su cui si possono fare in sintesi le seguenti riflessioni: 1) il Papato si trova ad essere vittima della prepotenza del nuovo, arrogante, potere costituito dagli stati nazionali, che si dividono sempre più i brandelli di quella che era stata la unitaria cristianità medioevale;

2) ma si trova ad essere vittima anche per la sua autoriduzione in senso burocratico-mondano, che rende meno percepibile la dimensione di annuncio del Cristianesimo come proposta totalizzante; 3) in questo quadro per quanto fosco comunque mai il legittimo successore di Pietro abdica al suo compito essenziale, di garante della ortodossia cattolica, e anzi le personalità dei Pontefici appaiono sostanzialmente degne di stima.